Leggere e scrivere




«Riga», n. 2 (Leggere e scrivere), Hestia, Milano 1992.

a cura di Marco Belpoliti
e Claudio Fontana



Editoriale

Molti ricorderanno lo splendido racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata. Il suo nucleo narrativo era centrato su un semplicissimo fatto: una preziosa lettera era stata rubata dalla scrivania di un influente personaggio e non c’era verso di ritrovarla. Dopo una serie di ricerche e di perquisizioni, ecco il colpo di scena: la lettera si trovava nella stanza, dalla quale, perciò, non era mai sparita. Eccola lì, esposta alla vista di chiunque, pendente dal caminetto per mezzo di un nastro turchino appeso ad un chiodo.
La lettera rubata è stata sottratta per essere mostrata nella sua più elementare posizione di visibilità: è scomparsa nel momento in cui il ladro-burlone ha deciso di renderla evidente.
Cosa c’entra tutto ciò con il secondo numero di Riga: «Leggere e Scrivere»? C’entra con il fatto che qui si è inteso indagare intorno a due forme intrecciate di una sparizione che mettiamo continuamente in atto proprio nel momento in cui le esercitiamo: appunto, l’esercizio, la pratica del leggere e dello scrivere. Quando pratichiamo la lettura e la scrittura, lo facciamo, innanzi tutto e per lo più, senza pensare a cosa esse propriamente «fanno» e a come esse appaiono; non ci soffermiamo sull'inchiostro che verga la pagina bianca o sui caratteri che scorriamo diligentemente sul foglio di un libro. Semplicemente essi ci appaiono come mezzi di comunicazione, intendendo con ciò che il mezzo e ciò che con esso si comunica sono due dimensioni ben distinte; insomma, la storia è ancora quella bimillenaria della forma (scrittura/lettura) e del contenuto (il pensiero).
Eppure, come nel racconto di Poe, scrittura e lettura sono lì a dirci che, forse, il rapporto tra mezzo e pensiero è molto meno contorto di quanto si possa supporre. Scrivere e leggere, infatti, sono pratiche, saperi con proprie leggi e caratteristiche: scrivere, ad esempio, non significa immediatamente scrivere in senso alfabetico, bensì significa segnare il mondo e aprirlo così al significato; la scrittura che, noi Occidentali, pratichiamo ogni giorno è solo un frutto relativamente tardivo, che ha dietro di sé scritture, grafie assai differenti; stavamo per dire (scrivere!) che la scrittura, così come oggi la pratichiamo noi, è un frutto tardivo della civiltà occidentale, ma non è la civiltà occidentale con il suo pensiero logico e la sua tecnica, a creare la scrittura, ma viceversa la scrittura e la lettura alfabetiche sono un fondamento essenziale della nostra civiltà. La scrittura e la lettura sono la lettera rubata dell’Occidente, che i vari Dupin di questo numero hanno cercato di ritrovare guardandole farsi lettera, grafia e lettura, e mostrandole nella loro elementare inevitabilità.
Mantenendo la struttura del primo numero, anche il presente si apre con alcuni interventi di impianto narrativo: Péter Esterhàzy, in un’intervista immaginaria, tanto vorrebbe descrivere la propria reale figura di scrittore, quanto non può che inciampare nell’impossibilità di darne una; Gianni Celati insinua nella scrittura un sospetto di malattia per l’inesaudibilità del desiderio di essere compresi; Marco Belpoliti mette in scena una chiarissima metafora della scrittura che si conclude con la ribellione alla dettatura.
Tre sezioni scandiscono gli studi saggistici dei rapporti tra scrittura e lettura. La prima, più decisamente incentrata sulla lettura, parte da due saggi dedicati alla cultura greca e latina: Jesper Svenbro rilegge il monito platonico contro la ripetitività della lettura come possibilità anzi positiva; Maria Tasinato indaga il pericolo di curiositas fuorviante per il lettore, e di compiacimento per lo scrittore, in alcuni capitoli della letteratura edificante cristiana.
Giuseppe Zuccarino è il più esplicito nel concentrarsi su una gamma di impossibilità della lettura, dall’emozione che sopraffà all'ermeneutica infinita.
Seguono due testi dedicati alla lettura delle arti visive. Si può parlare di vera e propria lettura per la pittura? E la domanda che pone Louis Marin, concludendo il suo percorso semiotico con un invisibile a fondamento stesso della leggibilità. Elio Grazioli ricostruisce da parte sua la presenza della parola scritta dentro l’immagine, a partire dagli sbocchi recenti dell’arte contemporanea che all’immagine ha sostituito, nella cosiddetta Arte Concettuale, la parola stessa.
La seconda sezione, intermedia in senso forte, affronta scrittura e lettura senza separarle neppure euristicamente, Carlo Sini con una parabola moderna di confronto filosofico tra Occidente e Oriente, Alfred Kallir con un lungo e storico saggio che della scrittura svela le implicazioni simboliche tanto quanto storiche e intrinsecamente esistenziali, Mario Porro affrontando la scrittura delle cose attraverso cui il mondo finisce col «leggere» nient’altro che se stesso.
È l’attaccamento al vitale ricordato alla filosofia nei primi due e l’attenzione della scienza contemporanea per lo scarto dall'equilibrio più che per l’equilibrio stesso, nel terzo, che marcano l’omogeneità di interessi e di impostazione anche in questi testi. Il presente numero di Riga si caratterizza infatti per larghezza e ricchezza di temi e modi, ma crede in un’omogeneità di approcci e di conclusioni: l’impossibile, l’invisibile, il vitale, la differenza, lo scarto... segnano l’attitudine stessa della rivista.
Nella terza sezione allora, più direttamente incentrata sulla scrittura, Claudio Fontana, ripercorrendo le interpretazioni storiche della concezione platonica della scrittura, ne evidenzia la forma occidentale, alfabetica; Giampiero Moretti ricorda il carattere metafisico della grafologia di Klages, che non concepisce scrittura senza rapporto con il mondo. L’inaudito indicato da Michel Serres ritrova al fondo stesso della musica la fisica come ascolto della physis, coincidenza di matematica e mondo delle cose. La scrittura quasi «orale» di Giorgio Messori si descrive presa tra il foglio bianco del prima e gli spazi bianchi in cui interviene la creazione, dalla percezione acuita alla maggiore presenza al mondo. 
Peter Bichsel chiude simmetricamente con un’altra risposta al «Perché Lei scrive?», risposta che viene alla fine «rigirata» in un invito piuttosto a chiedere a chi non scrive più: «Quando e perché hai smesso di scrivere?».
Gli interventi di due artisti visivi costituiscono l’ultima parte del volume: la scrittura-lettura-architettura di luce e ombra di Maurizio Barberis e l’intreccio immagine-parola, paradigma, anzi « orizzonte » di ben altri numerosi intrecci, di Carlo Guaita.
Nel primo numero di questa nostra rivista, in chiusura di editoriale, leggevamo questa considerazione: «Riga è il nome di un luogo dell’infanzia, un luogo possibile e impossibile verso cui abbiamo, con fatica, nuotato tutti, per imparare a leggere e a scrivere»; forse, quel luogo dell’infanzia è popolato anche dai segni, dalle lettere e dai disegni della nostra grafia occidentale, verso i quali nuotiamo per poter pensare.


luglio 1992

Sommario:
• Péter Esterhazy, «pourquoi écrivez-vous?»
• Gianni Celati, il desiderio di essere capiti
• Marco Belpoliti, il braccio e l’osso
• Jesper Svenbro, sulle tracce di Anniceride di Cirene
• Maria Tasinato, lettura edificante e curiositas
• Giuseppe Zuccarino, la lettura impossibile
• Louis Marin, leggere un quadro nel 1639
• Elio Grazioli, titolo - la parola nell’arte
• Carlo Sini, dialogo tra un filosofo e un maestro zen
• Alfred Kallir, V è lo scopo della guerra
• Mario Porro, scrittura e lettura delle cose
• Claudio Fontana, logografie
• Giampiero Moretti, l’io che scrive
• Michel Serres, musica e rumore di fondo
• Giorgio Messori, il foglio bianco, gli spazi bianchi
• Peter Bichsel, «perché Lei scrive?»
• Maurizio Barberis, scrittura/lettura/skeiron...
• Carlo Guaita, orizzonte
 

Peter Bichsel, "Perché lei scrive?"

(...) Alla domanda "Perché lei scrive?" si possono dare classiche risposte. Paul Valery diceva: Non sono affatto un poeta; solamente uno che si annoia". 
E Thomas Mann diceva: "Scrivo perché non ne sono capace": E' ciò che si chiama understatement o fishing compliments. (...)
Gabriele D'Annunzio, l'arrogante autore fascista (purtroppo non privo di talento), diceva "io scrivo perché ne sono capace". Questa frase mi piace. Mi pare esprima qualcosa sul mestiere dello scrivere. (...)

Ho preparato anch'io per l'occasione la mia risposta originale. Eccola: "Scrivo perché sono un cattivo giocatore di calcio. (...)
Da bambino ho sofferto molto di andare male in ginnastica, e di essere anche un cattivo giocatore di calcio (seconda riserva del terzino sinistro nella squadra di classe, mai sceso in campo). Ho sofferto di non saper far niente col mio corpo.
Allora andavo a casa e scrivevo delle poesie per vendicarmi dei bravi giocatori di calcio, per affermarmi nei loro confronti e davanti a me stesso". (...)
p. 227-229

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